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Fine dell’American Dream?

Per questo articolo è stato preso spunto da “Repubblica delle Donne” di sabato 22 ottobre.

Il giornalista Vittorio Zucconi parla del sogno americano, della sua massima espressione e della sua crisi. Z. afferma che per i sobborghi americani non è un bel momento; “le mogliettine robotizzate e cotonate si ribellano contro i loro mariti; gli adolescenti nei licei si fanno come mai prima d’ora, ormai più dei loro coetanei nei ghetti urbani, e questa è una notizia non un telefilm; le ragazzine vanno a prostituirsi in fretta e in piedi nei gabinetti dei grandi centri commerciali per rimediare un po’ di contanti con i quali fare shopping e lo rivelano i rapporti di polizia. E se il sobborgo si chiama Columbine, ed è in Colorado, c’è anche un rischio peggiore di una marchetta, si può finire abbattuti da una raffica di mitra.

“Il giornalista si chiede che cosa stia accadendo al sogno americano che in “quei quartieri identici, dietro le stesse facciate di mattoni rossi o di legno bianco, dietro gli stessi praticelli rasati come teste di Marines, con gli immancabili ciuffi di azalee.” L’invasione dei sobborghi cominciò negli anni ’60 e ’70, “quando per la prima volta gli abitanti divennero più numerosi di quelli delle città. I 180 milioni di americani che oggi vivono fuori città, contro i poco più di 100 milioni che ancora possono considerarsi urbani, avevano identificato l’American Dream con una confortevole, languida e rassicurante esistenza sotto un tetto di proprietà, a un’ora di commuting dal lavoro in treno o in auto.

Il sogno di libertà religiosa, di frontiera, di terre senza baroni e contadini, di benessere acquisito con il duro lavoro che generazioni di immigrati avevano insegnato ai figli. Il sogno della classe media esplosa dopo la guerra, di quello strato sociale che guadagna più della soglia di povertà per una famiglia di quattro persone, 30 mila dollari l’anno, ma meno di quei 100 mila che fanno scattare la categoria superiore era quello. Non la ricchezza e le mansions dei Rockefeller e dei Mellon, ma la casetta. L’auto nel garage, la tv in soggiorno, la cucina coi pensili e gli elettrodomestici, i bambini in bicicletta per i viali sicuri, l’assenza di ogni sentimento classista in comunità dove l’impiegato e l’operaio, il piccolo professionista e il carpentiere guadagnavano più o meno le stesse cifre, comperavano le stesse auto, arrostivano le stesse bistecche.

Le grandi città, Manhattan, San Francisco, Boston, Seattle erano riservate ai molto ricchi o ai molto poveri. L’American Dream, era la Middle Class dream, il sogno delle mezze calzette finalmente proprietarie di qualcosa, finalmente non più inquiline, ma padrone del proprio spazio. Fu l’esplosione della middle class a fare la fortuna del sobborgo e a costruire l’impalcatura morale, politica e civile dell’America come la conoscemmo e la invidiammo dopo la guerra. Ed è proprio questa impalcatura a scricchiolare oggi e a produrre il malessere che i produttori di film e telefilm rivendono a chi li avverte, perché il popolo della middle class, è la classe spremuta dalla crisi del modello di società upward mobile, come dicono i sociologi, la società fatta tutta di scale mobili in una direzione sola, verso l’alto.

Per pochi che salgono ancora, molti di più ora scendono. Negli ultimi cinque anni, coincidentalmente con la presidenza Bush un milione e mezzo di americani sono scivolati in giù, dalla classe media alla povertà. A colpi di riduzioni fiscali che hanno arricchito i ricchi e impoverito i non ricchi riducendo i servizi sociali che qualche dollaro in più non può certamente compensare, la “mela”, dove il grosso della gente vive nella condizione di “classe media”, sta diventando la società a forma di “pera”. Lo squilibrio fra le retribuzioni massime e minime dei grandi dirigenti e dell’ultimo assunto nelle aziende medio grandi, è salito da 20 contro uno negli anni Settanta a 250.

La concentrazione della ricchezza è aumentata vertiginosamente, e oggi l’1% della popolazione controlla il 65% dei beni nazionali, lasciando il 99% a sgomitare per il resto. Ci si salva facendo debiti al grido di “caricalo” sulla carta di credito. I debiti al consumo dei privati cittadini superano il PIL dell’Italia e per rincorrere il sogno della casetta devono ipotecare le loro vite. Un titolo universitario di quattro anni, chiave indispensabile per accedere al sogno, non costa ormai meno di 120 mila dollari in un discreto college. E a Levittown, (primo sobborgo costruito, vicino a Philadelphia) dove le case più di lusso si vendevano negli anni ’50 a 10.500 dollari cucina compresa, la media delle ultime villette vendute in settembre è stata di 900 mila dollari.

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