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Questa “breve” storia del Jazz non ha la pretesa né la finalità di costituire un documento analitico e completo di tale argomento, il quale meriterebbe tutt’altro spazio e molteplici riflessioni. Più semplicemente, con la seguente trattazione, si vuole offrire un quadro complessivo e generale sulla storia e l’evoluzione di questa musica; risulta infatti indispensabile e necessario conoscere le radici del jazz, da cui appunto non si può prescindere per capire (ma anche per apprezzare) a fondo, e non solo superficialmente, questo grande e sorprendente genere musicale.
Cos’è il jazz
Il Jazz è un genere di musica afroamericana, eseguito originariamente solo con strumenti a fiato e batteria, sorto agli inizi del XX secolo negli Stati Uniti: è caratterizzato dal fraseggio sincopato, dalla poliritmia strumentale, dall’improvvisazione per lo più solistica sul tema o motivo, e dall’impulso ritmico (swing).
In generale si usa indicare il tempo fondamentale del jazz in un tempo pari, di 4/4, ma nessuna regola è stata mai applicata nelle esecuzioni, le quali, avvalendosi dell’estro inventivo del momento, hanno poi determinato i diversi stili del jazz: quello delle brillanti improvvisazioni di Louis Armstrong, delle elaborate e raffinate composizioni di Duke Ellington, o ancora quello caotico delle marching bands e dei singoli complessi, spesso costituiti da pochi strumentisti.
Sull’origine del termine gli studiosi si sono trovati in contrasto:
- jazz potrebbe derivare dal nome di un musicista nero, Jazzbo, protagonista delle prime vicende di questo genere;
- dal francese jaser (balbettare), dalla pronuncia americana del nome Charles, gradatamente ridotto in chaz e poi in jazz;
- da razz band (complesso musicale di colore) oppure, ipotesi non priva di fondamento, da un monosillabo di una lingua africana, il Kikongo, con significato di carattere sessuale (eiaculazione).
“Jazz is not about flat fives or sharp nines, or metric subdivisions, or substitute chord
changes, Jazz is about feeling, communication, honesty, and soul. Jazz is not supposed
to boggle the mind. Jazz is meant to enrichthe spirit. Jazz can create jubilance. Jazz
can induce melancholy. Jazz can energize. Jazz can soothe. Jazz can make you shake
your head, clap your hands, and stomp your feet. Jazz can render you spellbound
and hypnotized. Jazz can be soft or hard, heavy or light, cool or hot, bright or dark.
Jazz is for your heart. Jazz moves you.”
Joshua Redman (from “MoodSwing”- 1994).
La storia
La tratta di schiavi neri in America iniziò nel 1500. Comprati in Africa occidentale presso mercanti indigeni, i neri portarono nel Nuovo Mondo una ricca varietà di musiche, danze, strumenti, vocaboli, riti e tradizioni. Nelle colonie cattoliche (francesi, spagnole, portoghesi) tali retaggi africani, tollerati, sopravvissero quasi intatti; nel contempo l’incrocio tra musiche nere e bianche partorì nuovi generi. Le colonie inglesi (poi divenute Stati Uniti d’America), protestanti, furono più repressive. Negli anni della schiavitù (1619-1865) ai neri fu proibito suonare la propria musica. Molti impararono la musica bianca, solo in campagna le tradizioni africane sopravvissero, trasformate in canti popolari in lingua inglese. Solo verso il 1830 i bianchi scoprirono la musica nera: divenne di moda il minstrel show, ambiguo spettacolo in cui bianchi truccati da neri snocciolavano in modo grottesco scenette, canzoni e balli: un primo, lieve influsso nero si insinuava così nella musica bianca. Celebri divennero le canzoni “negre” di Stephen Collins Foster. L’unico compositore colto a ispirarsi ai neri fu Louis M. Gottschalk, le cui pagine contengono vividi preannunci del jazz. Dopo l’emancipazione (1865) la musica nera esplose: gli artisti neri irruppero nel minstrel show donandogli una nuova linfa, si distesero corali nere in trascrizioni colte di spirituals, e nacquero compositori e concertisti neri (James Postlewaite, Blind Tom, Blind Boone, John Douglass).
Nel folclore si cristallizzò una forma fecondissima: il blues. Ma la reazione razzista ricacciò tutti i neri nel ghetto, non considerati liberi artisti, bensì giullari dell’uomo bianco. La loro musica poté così circolare solo in bettole, bordelli, o in ambiti “minori”, come la banda. Verso il 1895 la fusione tra musica nera colta e popolare generò a Saint-Louis il ragtime. A New Orleans, un ulteriore incrocio produsse il jazz, che in origine era ragtime per banda con abbellimenti improvvisati.
E’ quindi New Orleans ad essere la patria indiscussa del jazz. Questa città si trova nella Louisiana, regione dove le temperature sono alte e l’umidità nell’aria si fa sentire, portando con naturalezza a una sorta di indolenza compiacente. Non per niente New Orleans ha uno dei soprannomi più belli, The Big Easy, che, azzardando una traduzione, può suonare in italiano proprio come “la città facile”, o “la grande rilassata”, al contrario delle metropoli del Nord, attive fino alla frenesia, ma spesso chiuse.
Anche il Mississippi (il “Grande padre delle acque”, per stare alle definizioni indiane), che scorre fin qui per gettarsi nel Golfo del Messico, vi arriva quasi “stanco” dopo aver percorso migliaia di miglia, si perde in decine di anse, forma persino un lago, attraversa una zona di grandi paludi, e infine, ma solo quando non può più evitarlo, finisce il suo viaggio in mare. Quanto all’effervescenza, o se vogliamo a una certa bizzarria, una “atipicità” congenita della Louisiana rispetto a tutto il resto del Nord America, la si riscontra soprattutto nella produttiva mescolanza di razze che da sempre contraddistingue questa zona d’America; ed è appunto con l’arrivo dei neri, attraverso lo schiavismo, che giunge quel tocco di “Africa” che ancora si respira nell’aria.
New Orleans nei primi anni del 1900 aveva già consacrato diversi “King of jazz”: gente come il leggendario Charles Buddy Bolden, Bunk Johnson e, soprattutto, il trombettista Joseph “King” Oliver (è lui che scoprì e lanciò Armstrong). Tuttavia il primo disco di jazz (1917) viene inciso per caso da un quintetto di bianchi, l’Original Dixieland Jazz Band, il cui valore è tuttora discusso. Dal 1923 la discografia jazz si fa più ricca, e ci mostra l’espansione del jazz a Chicago, New York, Kansas City; mentre New Orleans, abbandonata dai suoi eroi, si impoverisce.

E’ questo il periodo classico del jazz. Con Louis Armstrong (trombettista, i cui assolo arditi e il canto rauco ne fecero l’idolo del pubblico nero e dei musicisti) e Sidney Bechet, il jazz di New Orleans tocca il culmine e muore, trasformandosi in uno stile nuovo, più solistico e aggressivo. Con Bessie Smith il canto blues si sposa al solismo jazz, mentre con James P. Johnson ed Earl Hines il piano jazz tocca i vertici del concertismo; con Fletcher Henderson e Duke Ellington si delinea il linguaggio dell’orchestra jazz. A Kansas City si sviluppa uno stile più ritmico e scandito (Bennie Moten). I bianchi trovano questa musica elettrizzante, ma non la capiscono: per loro è solo un nuovo genere ballabile. Delirano per le goffe orchestre “ritmo-sinfoniche”: specie per Paul Whiteman che, commissionando a George Gershwin la pur splendida Rhapsody in Blue, diffonde colossali equivoci sul jazz. Il maggior solista bianco del periodo è Bix Beiderbecke, introverso poeta della cornetta.
La rinascita del jazz
La Crisi del 1929 spazza via tutto, ma il jazz sopravvive, quasi di nascosto: durante la Depressione (1930-34) emerge Duke Ellington (fu colui che elevò il jazz al rango di “musica seria”, le cui ardite composizioni, che superavano di gran lunga i tre minuti scarsi concessi dai vecchi settantotto giri, le sue suite articolate in diversi movimenti e, infine, i suoi concerti sacri, scritti nell’autunno della sua esistenza, avevano immancabilmente suscitato forti critiche prima di essere accettati e valutati per il loro valore), il più grande compositore jazz.
La ripresa economica apre le porte alla rinascita del jazz, ora chiamato swing, compreso nel decennio 1935-1945 (effetto di dondolio ritmico che induce l’uditorio a battere il piede, schioccare le dita o dondolare a tempo; nel jazz divenne un effetto voluto e intensificato ad arte: accentuando i tempi deboli della battuta, rendendo più fluida e scorrevole la scansione del ritmo, dilatando appena la durata di alcune note a scapito delle altre e pronunciandole in modo idiomatico). Sull’onda del successo del bianco Benny Goodman il jazz conquista platee mondiali, in una forma orchestrabile ballabile, spesso insipida. Lo swing vede però anche la fioritura di grandi improvvisatori neri (Art Tatum, Coleman Hawkins, Lester Young, Charlie Christian) e di un solitario genio europeo, Django Reinhardt (chitarrista e compositore jazz zingaro, il quale sviluppò sulla chitarra uno stile sgargiante, di bravura, in cui l’improvvisazione jazz si fondeva con naturalezza agli umori zingari, spagnoli, ungheresi, balcanici).
Il bepop sostituisce lo swing
Ridotto infine a meccanico ingranaggio di danza, lo swing viene seppellito dal bebop, uno stile decisamente nero, aspro, ribelle e tumultuoso, creato da grandi solisti come Charlie Parker (sassofono), Dizzie Gillespie (tromba), Bud Powell (pianoforte) e Thelonious Monk (pianoforte) e altri. Il bebop, stile capriccioso, inorecchiabile, di enorme difficoltà esecutiva, basato su ritmi intricati, armonie ardite, melodie tortuose, o cantato su grottesche tiritere scat, si connotò subito come una musica ribelle, protestataria, intesa da pochi iniziati; i musicisti stessi lo sottolinearono assumendo modi misteriosi e ironici. Il bebop fu attaccato da più parti, ma fu anche salutato come una svolta del jazz, il quale si liberava così da ogni equivoco asservimento al gusto dominante della borghesia bianca. Esso inoltre segnò l’affermazione tra i neri di una più chiara consapevolezza della propria dignità e forza culturale. I citati capiscuola del bebop sono tra i massimi musicisti del 20esimo secolo: la loro arte esprime con ineguagliata profondità l’inquietudine dell’uomo moderno negli anni dell’incubo atomico. Nella sua forma pura esso fiorisce per pochi anni (1945-1950), ma lo si ritrova poi alla base di tutti gli stili seguenti.
Con il bebop, il jazz diventa musica di puro ascolto e perde molto del suo pubblico, che si volge al jazz tradizionale, o a cantanti melodici (Frank Sinatra), o al rhythm and blues (genere di musica afroamericana popolare, cittadina, dal ritmo marcato, motorio e ballabile, cantata con inflessioni blues e con uso di sax tenore, chitarra elettrica, organo Hammond). In questi anni intensi, dal bebop si distaccano varianti più bianche e intellettuali: ad esempio il diafano cool jazz di Lennie Tristano(pianoforte) e di Miles Davis (tromba), e il progressive (Stan Kenton) indica una variante bianca del bebop: ha un precedente nello stile quieto e flautato del sax tenore nero Lester Young, che per primo propose un jazz non già focoso, bensì sommesso e lieve; quando esplose il bebop, alcuni musicisti bianchi lo combinarono con la lezione di Young, rendendolo più controllato e cameristico; nel frattempo Ellington entra nella fase delle grandi suites.
Una nuova crisi
L’ostilità del pubblico, il trapasso dal disco a 78 giri al long playing e il clima sociale, avvelenato dal maccartismo, gettano il jazz in una nuova crisi. A riconciliarlo con il pubblico (1952) è il bianco Gerry Mulligan (sassofono), la cui musica moderna e originale, ma carezzevole, entra in tutte le case. Tuttavia, dal 1955 la voga del rock and roll fa del jazz la passione privata di un’élite di cultori borghesi. Il bebop si trasforma nel più squadrato, aggressivo e monocorde hard bop (Max Roach, Clifford Brown, Sonny Rollins); la formula di Mulligan decade nel fiacco e levigato jazz californiano, ideale sottofondo per le commedie di Hollywood; il cool si rinnova nei preziosi capolavori di John Lewis, Miles Davis e Gil Evans, approdando talora a espliciti incroci con la musica europea moderna. In ciò si distingue George Russell, singolare figura di teorico il cui Lydian Chromatic Concept getta le basi per nuovi sviluppi.
Intanto cresce il risentimento razziale, che dal 1956 sfocia in marce, sit-in e scontri per ottenere l’uguaglianza dei diritti. I neri si fanno più decisi, orgogliosi e consapevoli delle proprie radici culturali, e la teoria di Russell offre loro lo strumento per rendere il jazz meno europeo e più nero: il jazz modale, praticato in vario modo da Charles Mingus, John Coltrane, Eric Dolphy, Cecil Taylor, Davis, Roach e Bill Evans. L’ascoltatore abituato all’armonia europea resta perplesso, e il jazz vede svanire il suo pubblico, che il più facile rock erode via via.
L’ultimo colpo (1959) lo dà il sassofonista Ornette Coleman ideando il free jazz (prese il nome da un disco-manifesto dello stesso Coleman; quest’ultimo propugnava un’improvvisazione liberata dai tradizionali agganci a famose canzoni e ai soliti giri di accordi tonali, al cui posto vi erano strutture più elastiche, spesso modali), in cui i riferimenti all’armonia paiono del tutto sospesi e che all’ascoltatore appare come un caos cacofonico.
Dopo il 1960 lo scontro razziale si infiamma, e con esso la musica: ben presto al free jazz si avvicinano anche Taylor, Dolphy e, da ultimo, Coltrane, che diviene leader carismatico della nuova generazione, quella dei furiosi Archie Shepp e Albert Ayler. Ma in breve l’incendio si spegne: muore Coltrane (1967), esplode la contestazione studentesca e il rock vive la sua stagione d’oro, facendosi interprete dell’ansia di ribellione dei giovani. Nel 1969 il jazz sembra di colpo un fossile.

Miles Davis è il primo tra i grandi ad accettare il fatto, e indica la via del jazz-rock, unendo l’arte improvvisativa e la sapienza armonica del jazz con i colori degli strumenti elettrici. Nel gruppo elettrico di Davis ci sono giovani musicisti (Keith Jarrett, Chick Corea, Dave Holland, Jack DeJohnette, Steve Grossman) che costituiscono alcune delle stelle del jazz di oggi. Molti musicisti della scuola modale e qualche veterano (Rollins) lo seguono, ma rari sono i capolavori: mentre il jazz è arte individuale, il rock è un rito di massa, in cui l’individuo naufraga e si annulla. Negli anni Settanta la bandiera del free è tenuta alta soprattutto dall’A.A.C.M., un movimento di Chicago che propone una musica arditamente eclettica, mescola stili e generi, si apre all’abbraccio con le musiche tradizionali di Asia e Africa, ridà spazio alla composizione (Art Ensemble of Chicago, M. Richard Abrams, Leo Smith, Roscoe Mitchell, Anthony Braxton). In Europa, fin qui flebile provincia del jazz americano, fioriscono scuole di improvvisazione aleatoria, che a volte trabocca nella pantomima teatrale (Misha Mengelberg, Evan Parker, Trio Ganelin).
Ma la scena è dominata da stili di jazz storici, che il pubblico ha scoperto in ritardo. Dal 1972 il bebop e il jazz modale diventano sempre più familiari alla massa, spesso arrivata al jazz dal rock. Si diffondono i grandi festival, le scuole di jazz, i film sugli eroi del jazz. Mentre milioni di persone rileggono un secolo di storia, gli sviluppi recenti del jazz appaiono troppo avanzati. Nei retrivi anni Ottanta anche l’A.A.C.M. sfiorisce; domina l’artificiosa fusion (termine entrato in uso negli anni Ottanta, a indicare una variante del jazz basata su ritmi e strumenti elettrici del rock, di gusto artificiale, impersonale e meccanico, e di facile presa sul pubblico giovanile), non compaiono stili nuovi. In ogni caso, alla metà degli anni Ottanta, si è assistito a un rinnovato interesse per il jazz.
La “fusion”
Tra i protagonisti di questa nuova fioritura vi sono i due fratelli Marsalis: il trombettista Wynton, acclamato anche per le sue esecuzioni di musica classica, e Branford, sassofonista più aperto a suggestioni rock. Anche se il jazz rimane un prodotto essenzialmente statunitense, il suo pubblico internazionale ha fatto sì che si formassero musicisti e scuole molto interessanti anche al di fuori degli Stati Uniti: in questo senso, particolarmente significative sono state le esperienze del pianista francese Michel Petrucciani e quella della scuola scandinava, dalla quale sono usciti raffinati musicisti, come il sassofonista norvegese Jan Garbarek o il chitarrista David Torn. In questi anni, lo sviluppo del jazz in Europa fu possibile grazie anche ad una serie di manifestazioni come il Festival jazz di Montreux, in Svizzera, e soprattutto Umbria Jazz, una delle più importanti manifestazioni a livello mondiale. Il jazz degli ultimi quindici anni presenta un panorama frastagliato molto difficile da categorizzare.
Alcuni musicisti, come il chitarrista Pat Metheny, perseguono un’elegante commistione tra linguaggio jazzistico e musica di consumo; altri, come il sax tenore Michael Brecker, riprendono l’esperienza del jazz elettronico degli anni Settanta e Ottanta; altri ancora, come Garbarek, hanno sviluppato uno stile molto lirico che fonde jazz, tradizioni nordiche e atmosfere “new age“; infine i pianisti Hilton Ruiz e Chico Valdes attingono dal patrimonio delle ritmiche afro-latine. La difficoltà principale di questo genere musicale è, oggigiorno, quella di ritrovare, nel solco della tradizione improvvisativa, un’identità resa sempre più problematica dal mutare delle condizioni storiche e sociali della cultura che l’ha generata.
Da idioma specifico dei neri afroamericani, specchio di una cultura connotata dall’alterità (se non dall’estraneità) rispetto a un ordine sociale consolidato, il jazz ha subito trasformazioni che ne hanno mutato profondamente l’aspetto: innanzitutto ha conosciuto l’alfabetizzazione, con l’introduzione di partiture scritte, e una crescente elaborazione teorica; ancora l’europeizzazione e l’apporto della tradizione “bianca”, e infine il contatto con la musica colta e le pressioni del mercato discografico.

Il jazz oggi
Oggi il jazz è un linguaggio internazionale, aperto a molte influenze e carico di potenzialità, ma anche esposto ai rischi soffocanti di una tradizione divenuta storia. Una serie di musicisti è ancora in piena attività e si muove lungo coordinate consolidate e tuttora vitali: è il caso del pianista Keith Jarrett, uno dei più eccezionali interpreti jazz della scena musicale contemporanea, la cui versalità si manifesta sia nella gamma di strumenti suonati sia nei generi musicali praticati; ricordiamo il sassofonista Steve Lacy e il pianista Cecil Taylor, che integra lucidamente l’energia delle radici africane, la tradizione europea e la musica colta contemporanea. Per gli altri, si pone il problema di ripensare la tradizione, attingendo dalla consapevolezza del passato le ragioni di una musica del presente. La musica del pianista Cedar Walton è un punto di riferimento di una tendenza, il modern mainstream, volta a rielaborare materiali e idiomi del patrimonio storico al servizio di un nuovo progetto espressivo. Correlato a questa tendenza è il fenomeno della scolarizzazione della musica jazz, il cui linguaggio viene progressivamente razionalizzato, esposto in metodi e trattazioni sistematiche, e reso oggetto di insegnamento.
In ogni caso, la “scommessa” è quella di suonare sempre qualcosa di diverso ma nello stesso tempo di riconoscibile: l’inafferrabile mistero del jazz è tutto qui, nel sottile equilibrio tra improvvisazione e unità di stile.
Tra gli astri nascenti del jazz di oggi ricordiamo, tra i tanti, Brad Mehldau (pianoforte), Esbjorn Svensson (pianoforte), Simon Nabatov (pianoforte), Uri Caine (pianoforte), Joshua Redman (sassofono), Mark Turner (sassofono), Roy Hargrove (tromba), Regina Carter (violino).
Il jazz è lasciare che la luce brilli, non cercare di accrescerla – lasciarla essere (Keith Jarrett).
fonte: keithjarrett.it