Musica Jazz in america

Musica Jazz: storia origini e sviluppo del genere in USA

Aprile 24, 2024 /

Questa “breve” storia del Jazz non ha la pretesa né la finalità di costituire un documento analitico e completo di tale argomento, il quale meriterebbe tutt’altro spazio e molteplici riflessioni.

Più semplicemente, con la seguente trattazione, si vuole offrire un quadro complessivo e generale sulla storia e l’evoluzione di questa musica americana; risulta infatti indispensabile e necessario conoscere le radici del jazz, da cui appunto non si può prescindere per capire (ma anche per apprezzare) a fondo, e non solo superficialmente, questo grande e sorprendente genere musicale.

Cos’è il jazz: caratteristiche

Storia del jazz americano

Il Jazz è un genere di musica che ha origine nelle comunità afroamericane, eseguito originariamente prevalentemente con strumenti a fiato e batteria. Sorto agli inizi del 20esimo secolo negli Stati Uniti: è caratterizzato dal fraseggio sincopato, dalla poliritmia strumentale, dall’improvvisazione per lo più solistica sul tema o motivo, e dall’impulso ritmico (swing).

Il tempo più diffuso nel jazz è un tempo pari, di 4/4, ma nessuna regola è stata mai applicata a riguardo nelle esecuzioni, le quali, avvalendosi dell’estro inventivo del momento, hanno poi determinato i diversi stili del jazz: quello delle brillanti improvvisazioni di Louis Armstrong, delle elaborate e raffinate composizioni di Duke Ellington, o ancora quello caotico delle marching bands e dei singoli complessi, spesso costituiti da pochi strumentisti.

Sull’origine del termine gli studiosi si sono trovati in contrasto, lìetimologia potrebbe infatti derivare:

  • dal francese jaser (balbettare), dalla pronuncia americana del nome Charles, gradatamente ridotto in chaz e poi in jazz;
  • da razz band (complesso musicale di colore) oppure, ipotesi non priva di fondamento, da un monosillabo di una lingua africana, il Kikongo, con significato di carattere sessuale (eiaculazione).

“Jazz is not about flat fives or sharp nines, or metric subdivisions, or substitute chord
changes, Jazz is about feeling, communication, honesty, and soul. Jazz is not supposed
to boggle the mind. Jazz is meant to enrich the spirit. Jazz can create jubilance. Jazz
can induce melancholy. Jazz can energize. Jazz can soothe. Jazz can make you shake
your head, clap your hands, and stomp your feet. Jazz can render you spellbound
and hypnotized. Jazz can be soft or hard, heavy or light, cool or hot, bright or dark.
Jazz is for your heart. Jazz moves you.”

Joshua Redman (from “MoodSwing”- 1994).

Per quanto riguarda il rapporto tra blues e jazz, entrambi condividono radici afro-americane, ma, mentre il blues nasce nella seconda metà dell’800, traendo origine dal canto degli schiavi nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti – canti di lavoro e canti religiosi – il jazz ha un carattere prevalentemente strumentale e improntato all’improvvisazione. Mentre il blues è semplice e basato su strutture armoniche fisse, il jazz presenta una maggiore complessità armonica e strutturale, oltre a una grande varietà nelle formazioni impiegate.

Al di là dei più conosciuti jazz classico e swing, il jazz si è evoluto in un ampio ventaglio di sottogeneri. Alcuni di questi, come il bebop e il successivo hard bop, sono improntati al virtuosismo strumentale e alla complessità delle soluzioni musicali. Altri, come il free jazz e l’improvvisazione libera, enfatizzano la rimozione delle strutture musicali e la libertà dei musicisti. Altri ancora, come il jazz modale, sono caratterizzati dagli elementi musicali impiegati (in questo caso le scale modali). Ci sono poi generi come lo smooth jazz, improntati all’orecchiabilità e ai grandi ensembles, più che alla complessità.

Dagli anni ’70 il jazz si è evoluto o tramite l’ibridazione con altri generi, da cui nascono il jazz rock, la fusion, il jazz rap o il punk-jazz; o tramite il richiamo a momenti precedenti della sua storia (due casi opposti sono il neo-bop e lo Straight-ahead jazz).

La musica jazz è da sempre percorsa da due correnti espressive, una più intimistica e orecchiabile, votata al melodismo e al sentimentalismo, e una più intellettuale, concettosa e pirotecnica, basata sulla ricercatezza delle soluzioni musicali e rivolta a un pubblico di intenditori.

Il jazz manifesta diversità stilistica anche in termini di come vari sottogeneri sono stati percepiti e accolti da diverse comunità razziali. Il bebop, il free jazz e il jazz delle origini sono stati considerati generi autenticamente afro-americani. Le varianti più addomesticate e ascoltabili del genere, come lo smooth jazz e lo swing, sono invece spesso identificate con l’etichetta di “jazz dei bianchi“. Tale etichettamento non riguarda solo l’appartenenza razziale dei musicisti, ma, e soprattutto, il pubblico di riferimento.

Storia del Jazz

Storia della Musica jazz usa

La tratta di schiavi neri verso le Americhe iniziò all’inizio del XVI secolo. Comprati in Africa occidentale presso mercanti indigeni, i neri portarono nel Nuovo Mondo una ricca varietà di musiche, danze, strumenti, vocaboli, riti e tradizioni. Nelle colonie cattoliche (francesi, spagnole, portoghesi) tali retaggi africani, tollerati, sopravvissero quasi intatti; nel contempo, l’incrocio tra musiche nere e bianche partorì nuovi generi.

Le colonie inglesi (poi divenute Stati Uniti d’America), protestanti, furono più repressive. Negli anni della schiavitù (1619-1865), gli afro americani trovarono modi per mantenere viva la propria musica e tradizione culturale, nonostante le restrizioni nelle colonie inglesi. Molti impararono la musica bianca, e solo in campagna le tradizioni africane sopravvissero, trasformate in canti popolari in lingua inglese. Solo verso il 1830 i bianchi scoprirono la musica nera: divenne di moda il minstrel show, ambiguo spettacolo in cui bianchi truccati da neri snocciolavano in modo grottesco scenette, canzoni e balli: un primo, lieve influsso nero si insinuava così nella musica bianca. Celebri divennero le canzoni “negre” di Stephen Collins Foster.

L’unico compositore colto a ispirarsi alla musica dei neri in questo periodo fu Louis M. Gottschalk, le cui pagine contengono vividi preannunci del jazz. Dopo l’emancipazione (1865) la musica nera esplose: gli artisti neri irruppero nel minstrel show donandogli una nuova linfa, emersero corali nere e trascrizioni colte di spirituals, nacquero compositori e concertisti neri (James Postlewaite, Blind Tom, Blind Boone, John Douglass). A tutto questo contribuì anche l’introduzione sul mercato di strumenti molto economici appartenuti alle ex bande militari sudiste e nordiste.

Nel folclore si cristallizzò una forma fecondissima: il blues. Ma la reazione razzista ricacciò tutti i neri nel ghetto, non considerati liberi artisti, bensì giullari dell’uomo bianco. La loro musica poté così circolare solo in bettole, bordelli, o in ambiti “minori”, come la banda. Verso il 1895 la fusione tra musica nera colta e popolare generò a Saint-Louis il ragtime. A New Orleans, un ulteriore incrocio produsse il jazz, che in origine era ragtime per banda con abbellimenti improvvisati.

È quindi New Orleans ad essere la patria indiscussa del jazz. Questa città si trova nella Louisiana, regione dove le temperature sono alte e l’umidità nell’aria si fa sentire, portando con naturalezza a una sorta di indolenza compiacente. Non per niente New Orleans ha uno dei soprannomi più belli, The Big Easy, che, azzardando una traduzione, può suonare in italiano proprio come “la città facile”, o “la grande rilassata”, al contrario delle metropoli del Nord, attive fino alla frenesia, ma spesso chiuse dal punto di vista culturale.

Anche il Mississippi (il “Grande padre delle acque”, per stare alle definizioni indiane), che scorre fin qui per gettarsi nel Golfo del Messico, vi arriva quasi “stanco” dopo aver percorso migliaia di miglia, si perde in decine di anse, forma persino un lago, attraversa una zona di grandi paludi, e, infine, ma solo quando non può più evitarlo, finisce il suo viaggio in mare.

Quanto all’effervescenza, o se vogliamo a una certa bizzarria, una “atipicità” congenita della Louisiana rispetto a tutto il resto del Nord America, la si riscontra soprattutto nella produttiva mescolanza di razze che da sempre contraddistingue questa zona d’America; ed è appunto con l’arrivo dei neri, attraverso lo schiavismo, che giunge quel tocco di “Africa” che ancora si respira nell’aria, e che contribuisce all’emergere del jazz.

New Orleans nei primi anni del ‘900 aveva già consacrato diversi “King of jazz”: gente come il leggendario Charles Buddy Bolden, Willie Bunk Johnson e, soprattutto, il trombettista Joseph Nathan “King” Oliver (è lui che scoprì e lanciò Armstrong).

Tuttavia, il primo disco di jazz registrato, conosciuto come ‘Livery Stable Blues’, fu inciso nel 1917 dall’Original Dixieland Jazz Band, un gruppo di musicisti bianchi, segnando un momento controverso nella storia del jazz. Da questo reperto si può desumere lo stile del dixieland, jazz bandistico dell’epoca: strutture semplici, effetti sonori, ampio impiego di abbellimenti e glissati, armonie quasi esclusivamente diatoniche.

Dal 1923 la discografia jazz si fa più ricca, e ci mostra l’espansione del jazz a Chicago, New York, Kansas City; mentre New Orleans, abbandonata dai suoi eroi, si impoverisce.

È questo il periodo classico del jazz. Con Louis Armstrong (trombettista, i cui assolo arditi e il canto rauco ne fecero l’idolo del pubblico nero e dei musicisti) e Sidney Bechet, il jazz di New Orleans tocca il culmine e muore, trasformandosi in uno stile nuovo, più solistico e aggressivo.

Con Bessie Smith il canto blues si sposa al solismo jazz, mentre con James P. Johnson ed Earl Hines il piano jazz tocca i vertici del concertismo; con Fletcher Henderson e Duke Ellington si delinea il linguaggio dell’orchestra jazz.

A Kansas City si sviluppa uno stile più ritmico e scandito (il cui esponente di spicco è Bennie Moten). I bianchi trovano questa musica elettrizzante e la accolgono come nuovo genere ballabile. Impazziscono per le nuove orchestre “ritmo-sinfoniche”, specie per Paul Whiteman che, commissionando a George Gershwin la splendida Rhapsody in Blue, diffuse gli stilemi del jazz nelle sale da concerto. Il maggior solista bianco del periodo è Bix Beiderbecke, introverso poeta della cornetta.

La rinascita del jazz

Storia jazz

La Crisi del 1929 spazza via quasi tutto, ma il jazz sopravvive, quasi di nascosto: Duke Ellington infatti, già attivo negli anni ’20, continuò ad affermarsi durante tutta la Depressione. Ellington fu colui che elevò il jazz al rango di “musica seria”, le cui ardite composizioni, che superavano di gran lunga i tre minuti scarsi concessi dai vecchi 78 giri, le sue suite articolate in diversi movimenti e, infine, i suoi concerti sacri, scritti nell’autunno della sua esistenza, avevano immancabilmente suscitato forti critiche prima di essere accettati e valutati per il loro valore. Per l’importanza del suo contributo alla musica jazz, Ellington è oggi considerato il più grande compositore jazz.

La ripresa economica apre le porte alla rinascita del jazz, ora chiamato swing, compreso nel decennio 1935-1945 (effetto di dondolio ritmico che induce l’uditorio a battere il piede, schioccare le dita o dondolare a tempo; nel jazz divenne un effetto voluto e intensificato ad arte: accentuando i tempi deboli della battuta, rendendo più fluida e scorrevole la scansione del ritmo, dilatando appena la durata di alcune note a scapito delle altre e pronunciandole in modo idiomatico).

Sull’onda del successo di Benny Goodman e altri, il jazz swing diventò popolare a livello mondiale. Lo swing vede anche la fioritura di grandi improvvisatori neri (Art Tatum, Coleman Hawkins, Lester Young, Charlie Christian) e di un solitario genio europeo, Django Reinhardt (chitarrista e compositore jazz zingaro, il quale sviluppò sulla chitarra uno stile sgargiante, di bravura, in cui l’improvvisazione jazz si fondeva con naturalezza agli umori zingari, spagnoli, ungheresi, balcanici).

Il bepop sostituisce lo swing

Storia jazz usa

Ridotto infine a meccanico ingranaggio di danza, lo swing viene seppellito dal bebop, uno stile decisamente nero, aspro, ribelle e tumultuoso, creato da grandi solisti come Charlie Parker (sassofono), Dizzie Gillespie (tromba), Bud Powell (pianoforte) e Thelonious Monk (pianoforte) e altri. Il bebop, stile capriccioso, inorecchiabile, di enorme difficoltà esecutiva, basato su ritmi intricati, armonie ardite, melodie tortuose, o cantato su grottesche tiritere scat (stile vocale improvvisativo basato sul canto di sillabe nonsense), si connotò subito come una musica ribelle, protestataria, intesa da pochi iniziati; i musicisti stessi lo sottolinearono assumendo modi misteriosi e ironici.

Il bebop fu attaccato da più parti, ma fu anche salutato come una svolta del jazz, che segnava una liberazione dal dominio del gusto commerciale prevalente e una riaffermazione della profonda creatività e innovatività degli artisti afroamericani. Esso inoltre segnò l’affermazione tra i neri di una più chiara consapevolezza della propria dignità e forza culturale. I citati capiscuola del bebop sono tra i massimi musicisti del 20esimo secolo: la loro arte esprime con ineguagliata profondità l’inquietudine dell’uomo moderno negli anni dell’incubo atomico. Nella sua forma pura esso fiorisce per pochi anni (1945-1950), ma lo si ritrova poi alla base di tutti gli stili seguenti.

Con il bebop, il jazz diventa musica di puro ascolto e perde molto del suo pubblico, che si volge al jazz tradizionale, o a cantanti melodici (Frank Sinatra), o al rhythm and blues (genere di musica afroamericana popolare, cittadina, dal ritmo marcato, motorio e ballabile, cantata con inflessioni blues e con uso di sax tenore, chitarra elettrica, organo Hammond).

Dopo il bebop, si svilupparono stili come il cool jazz, rappresentato da musicisti come Lennie Tristano e Miles Davis, e il progressive jazz, di cui Stan Kenton fu un importante esponente. Questi stili incorporavano elementi del bebop ma li sviluppavano in direzioni nuove e spesso meno intense: ha un precedente nello stile quieto e flautato del sax tenore nero Lester Young, che per primo propose un jazz non già focoso, bensì sommesso e lieve. Quando esplose il bebop, alcuni musicisti bianchi lo combinarono con la lezione di Young, rendendolo più controllato e cameristico; nel frattempo Ellington entra nella fase delle grandi suite.

Una nuova crisi

Storia della musica jazz

L’ostilità del pubblico, il passaggio dal disco a 78 giri al long playing e il clima sociale, avvelenato dal maccartismo, gettano il jazz in una nuova crisi. A riconciliarlo con il pubblico (1952) è il bianco Gerry Mulligan (sassofono), la cui musica moderna e originale, ma carezzevole, entra in tutte le case. Tuttavia, dal 1955 la voga del rock and roll fa del jazz la passione privata di un’élite di cultori borghesi.

Il bebop si trasforma nel più squadrato, aggressivo e monocorde hard bop (Max Roach, Clifford Brown, Sonny Rollins); la formula di Mulligan decade nel fiacco e levigato jazz californiano, ideale sottofondo per le commedie di Hollywood; il cool si rinnova nei preziosi capolavori di John Lewis, Miles Davis e Gil Evans, approdando talora a espliciti incroci con la musica europea moderna. In ciò si distingue George Russell, singolare figura di teorico il cui Lydian Chromatic Concept getta le basi per nuovi sviluppi.

Intanto cresce il risentimento razziale, che dal 1956 sfocia in marce, sit-in e scontri per ottenere l’uguaglianza dei diritti. I neri si fanno più decisi, orgogliosi e consapevoli delle proprie radici culturali, e la teoria di Russell offre loro lo strumento per rendere il jazz meno europeo e più nero: il jazz modale, praticato in vario modo da Charles Mingus, John Coltrane, Eric Dolphy, Cecil Taylor, Miles Davis, Max Roach Bill Evans. L’ascoltatore abituato all’armonia europea resta perplesso, e il jazz vede svanire il suo pubblico, che il più facile rock erode via via.

L’ultimo colpo (1959) lo dà il sassofonista Ornette Coleman ideando il free jazz (prese il nome da un disco-manifesto dello stesso Coleman; quest’ultimo propugnava un’improvvisazione liberata dai tradizionali agganci a famose canzoni e ai soliti giri di accordi tonali, al cui posto vi erano strutture più elastiche, spesso modali), in cui i riferimenti all’armonia paiono del tutto sospesi e che all’ascoltatore appare come un caos cacofonico.

Dopo il 1960 lo scontro razziale si infiamma, e con esso la musica: ben presto al free jazz si avvicinano anche Taylor, Dolphy e, da ultimo, Coltrane, che diviene leader carismatico della nuova generazione, quella dei furiosi Archie Shepp e Albert Ayler. Ma in breve l’incendio si spegne: muore Coltrane (1967), esplode la contestazione studentesca e il rock vive la sua stagione d’oro, facendosi interprete dell’ansia di ribellione dei giovani. Nel 1969 il jazz sembra di colpo un fossile.

Gli anni ’60 sono anche quelli della diffusione delle formazioni jazz europee, inizialmente secondo un fedele ricalco del modello americano e, successivamente, costruendosi una propria identità. In generale, il jazz è una musica squisitamente americana: gli europei hanno cercato di appropriarsene o rivolgendosi ai vari folklori nazionali o a un’ibridazione con la musica colta, più o meno sperimentale. In generale, comunque, il jazz europeo resta un fenomeno altamente vario e composito, non riassumibile in una descrizione univoca.

Miles Davis è il primo tra i grandi ad accettare il fatto, e indica la via del jazz-rock, unendo l’arte improvvisativa e la sapienza armonica del jazz con i colori degli strumenti elettrici. Nel gruppo elettrico di Davis ci sono giovani musicisti (Keith Jarrett, Chick Corea, Dave Holland, Jack DeJohnette, Steve Grossman) che costituiscono alcune delle stelle del jazz di oggi. Molti musicisti della scuola modale e qualche veterano (Rollins) lo seguono, ma rari sono i capolavori: mentre il jazz è arte individuale, il rock è un rito di massa, in cui l’individuo naufraga e si annulla.

Negli anni Settanta la bandiera del free è tenuta alta soprattutto dall’A.A.C.M., un movimento di Chicago che propone una musica arditamente eclettica, mescola stili e generi, si apre all’abbraccio con le musiche tradizionali di Asia e Africa, ridà spazio alla composizione (Art Ensemble of Chicago, M. Richard Abrams, Leo Smith, Roscoe Mitchell, Anthony Braxton). In Europa, fin qui flebile provincia del jazz americano, fioriscono scuole di improvvisazione aleatoria, che a volte trabocca nella pantomima teatrale (Misha Mengelberg, Evan Parker, Trio Ganelin).

Ma la scena è dominata da stili di jazz storici, che il pubblico ha scoperto in ritardo. Dal 1972 il bebop e il jazz modale diventano sempre più familiari alla massa, spesso arrivata al jazz dal rock. Si diffondono i grandi festival, le scuole di jazz, i film sugli eroi del jazz. Mentre milioni di persone rileggono un secolo di storia, gli sviluppi recenti del jazz appaiono troppo avanzati.

Nei retrivi anni ’80 anche l’A.A.C.M. sfiorisce; domina l’artificiosa fusion (termine entrato in uso in quegli anni,na indicare una variante del jazz basata su ritmi e strumenti elettrici del rock, di gusto artificiale, impersonale e meccanico, e di facile presa sul pubblico giovanile), non compaiono stili nuovi. In ogni caso, alla metà degli anni ’80, si è assistito a un rinnovato interesse per il jazz.

La “fusion”

Musica Jazz USA

Tra i protagonisti di questa nuova fioritura vi sono i due fratelli Marsalis: il trombettista Wynton, acclamato anche per le sue esecuzioni di musica classica, e Branford, sassofonista più aperto a suggestioni rock. Anche se il jazz rimane un prodotto essenzialmente statunitense, il suo pubblico internazionale ha fatto sì che si formassero musicisti e scuole molto interessanti anche al di fuori degli Stati Uniti: in questo senso, particolarmente significative sono state le esperienze del pianista francese Michel Petrucciani e quella della scuola scandinava, dalla quale sono usciti raffinati musicisti, come il sassofonista norvegese Jan Garbarek o il chitarrista Terje Rypdal.

In questi anni, lo sviluppo del jazz in Europa fu possibile grazie anche ad una serie di manifestazioni come il Festival jazz di Montreux, in Svizzera, e soprattutto Umbria Jazz, una delle più importanti manifestazioni a livello mondiale. Il jazz degli ultimi quindici anni presenta un panorama frastagliato molto difficile da categorizzare.

Alcuni musicisti, come il chitarrista Pat Metheny, perseguono un’elegante commistione tra linguaggio jazzistico e musica di consumo; altri, come il sax tenore Michael Brecker, riprendono l’esperienza del jazz elettronico degli anni Settanta e Ottanta; altri ancora, come Garbarek, hanno sviluppato uno stile molto lirico che fonde jazz, tradizioni nordiche e atmosfere “new age“; infine i pianisti Hilton Ruiz e Chucho Valdés attingono dal patrimonio delle ritmiche afro-latine.

La difficoltà principale di questo genere musicale è, oggigiorno, quella di ritrovare, nel solco della tradizione improvvisativa, un’identità resa sempre più problematica dal mutare delle condizioni storiche e sociali della cultura che l’ha generata.

Da idioma specifico dei neri afroamericani, specchio di una cultura connotata dall’alterità (se non dall’estraneità) rispetto a un ordine sociale consolidato, il jazz ha subito trasformazioni che ne hanno mutato profondamente l’aspetto: innanzitutto ha conosciuto l’alfabetizzazione, con l’introduzione di partiture scritte, e una crescente elaborazione teorica; ancora l’europeizzazione e l’apporto della tradizione “bianca”, e infine il contatto con la musica colta e le pressioni del mercato discografico.

Il Jazz oggi

Jazz in america

Oggi il jazz è un linguaggio internazionale, aperto a molte influenze e carico di potenzialità, ma anche esposto ai rischi soffocanti di una tradizione divenuta storia. Una serie di musicisti è ancora in piena attività e si muove lungo coordinate consolidate e tuttora vitali: è il caso del pianista Keith Jarrett, uno dei più eccezionali interpreti jazz della scena musicale contemporanea, la cui versatilità si manifesta sia nella gamma di strumenti suonati sia nei generi musicali praticati; ricordiamo il pianista Cecil Taylor, che integra lucidamente l’energia delle radici africane, la tradizione europea e la musica colta contemporanea.

Per gli altri, si pone il problema di ripensare la tradizione, attingendo dalla consapevolezza del passato le ragioni di una musica del presente. La musica del pianista Cedar Walton è un punto di riferimento di una tendenza, il modern mainstream, volta a rielaborare materiali e idiomi del patrimonio storico al servizio di un nuovo progetto espressivo. Correlato a questa tendenza è il fenomeno della scolarizzazione della musica jazz, il cui linguaggio viene progressivamente razionalizzato, esposto in metodi e trattazioni sistematiche, e reso oggetto di insegnamento.

In ogni caso, la “scommessa” è quella di suonare sempre qualcosa di diverso ma nello stesso tempo di riconoscibile: l’inafferrabile mistero del jazz è tutto qui, nel sottile equilibrio tra improvvisazione e unità di stile.

Tra gli astri nascenti del jazz di oggi ricordiamo, tra i tanti, Brad Mehldau (pianoforte), Esbjorn Svensson (pianoforte), Simon Nabatov (pianoforte), Uri Caine (pianoforte), Joshua Redman (sassofono), Mark Turner (sassofono), Roy Hargrove (tromba), Regina Carter (violino).

Il jazz è lasciare che la luce brilli, non cercare di accrescerla – lasciarla essere

(Keith Jarrett)

Principali esponenti

Non è semplice definire quali siano gli artisti più importanti per la storia del jazz. Accanto al già citato Ellington, figura cardinale per la nascita del jazz in senso moderno, si può annoverare anche Louis Armstrong, pioniere del jazz classico e uno dei musicisti più influenti di sempre, sia per lo stile strumentale che per la sua vocalità.

Poi abbiamo Charlie Parker, sassofonista rivoluzionario e figura centrale nello sviluppo del bebop, grazie alla complessità della sua musica. Miles Davis, trombettista e compositore, ha invece contribuito a definire il jazz modale e la fusion, contribuendo allo sviluppo di uno stile propriamente afro-americano ma lontano dagli intrichi del bop e del free jazz.

Tra i personaggi femminili è impossibile non citare Ella Fitzgerald, iconica cantante jazz che ha emancipato per prima la figura del cantante all’interno della formazione, con una voce straordinaria e una tecnica impeccabile. C’è poi Thelonious Monk, pianista e compositore noto per il suo stile eccentrico e innovativo, che ha saputo adattare la complessità del bebop a una tecnica pianistica decisamente minimalista.

Charles Mingus ha rivoluzionato il ruolo del contrabbassista nel jazz, oltre a essere stato compositore e leader di ensembles capaci di attraversare le diverse correnti del jazz del suo tempo. In tempi più recenti troviamo Herbie Hancock, pianista e tastierista che ha praticato una vasta gamma di stili, dal post-bop al jazz fusion, e rappresenta il pluralismo del jazz moderno.

Infine Jacob Collier, jazzista e compositore contemporaneo di grandissima raffinatezza che rappresenta al meglio gli sviluppi del jazz nel contesto dei social e delle nuove dinamiche massmediali.

10 dischi per capire il jazz

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I dischi presentati di seguito non sono necessariamente “i più belli” di questo genere, ma permettono di capirne lo sviluppo storico, ed è per questo che sono ordinati in senso cronologico:

  • The Complete Original Dixieland Jazz Band” – Original Dixieland Jazz Band (1917): si tratta di un disco che riassume lo stile dixieland di New Orleans, patria del jazz.
  • Louis Armstrong Hot Five and Hot Seven Recordings” – Louis Armstrong (1925-1928): un disco che mostra quanto lo stile vocale e la tecnica strumentale di Armstrong, insieme agli assoli improvvisati, abbiano traghettato il jazz dalle bande alle piccole formazioni.
  • Ella Sings Gershwin” – Ella Fitzgerald (1950): primo album completo della cantante solista, perfetto per evidenziare il ruolo della voce nella storia di questo genere.
  • Diz and Getz” – Dizzie Gillespie, Stan Getz et al. (1953-1955): un album che coinvolge alcuni dei più importanti musicisti della scena bebop e, pertanto, ne costituisce un’ottima presentazione.
  • Birth of the Cool” – Miles Davis (1949-1957): si tratta del disco che ha inaugurato lo stile soffuso del cool jazz.
  • Kind of Blue” – Miles Davis (1959): oltre a essere considerato uno degli album jazz più belli e importanti di sempre, questo disco apre la strada per quello che diventerà poi il jazz modale.
  • Free Jazz: A Collective Improvisation” – Ornette Coleman (1961): album-manifesto che segna la nascita ufficiale del free jazz.
  • Head Hunters” – Herbie Hancock (1973): dodicesimo album di Hancock, Head Hunters è uno dei massimi vertici raggiunti dalla musica fusion e dal jazz ibridato con il funk in particolare, una miscela perfetta di groove e raffinatezza compositiva.
  • The Köln Concert” – Keith Jarrett (1975): questa registrazione di un live di Jarrett rappresenta bene la svolta eclettica che esploderà nel jazz del decennio successivo e lo riguarda ancora oggi, con un mix di pianismo jazz classico, minimalismo e musica modale.
  • In My Room” – Jacob Collier (2016): l’album di esordio di Collier, nato come intrattenitore su YouTube, mostra quando il meticciato del jazz sia inarrestabile al giorno d’oggi. In larga parte autoprodotto, questo disco eclettico si snoda fra cover ammiccanti e canzoni originali.

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